Breaking Bad – La creazione di un mito e altre disquizioni su High Quality Series

•settembre 23, 2016 • Lascia un commento

Your business is your business. My business is keepin’ you out of custody.

La precendente anafora nel 15° e penultimo episodio della quinta stagione del serial televisivo più osannato degli ultimi anni, appartiene a un personaggio, già presente nell’ombra da parecchio tempo prima (“I know a guy who knows a guy who knows another guy” Saul Goodman) che, interpretato da Robert Forster, conosciuto dal grande pubblico per aver interpretato Max Cherry in Jackie Brown, mantiene una calma e una dialettica tarantiniana che si accorda perfettamente al tono della serie che lo ospita, disvelando parte dei meccanismi che sottendono al successo di “rompendo male“. Più tardi torneremo su questa traduzione balilliana, ma per capirne tutte le implicazioni dovremo tracciare il percorso di questo volo pindarico.

L’iconografia del dramma televisivo tende a presentare personaggi che poco hanno a che fare con il cambiamento e che generalmente interagiscono con il mondo circostante in un modo prevedibile e poco spiazzante. La serie tv anni ’80 e ’90 offre il profilo di uno o più protagonisti che si trovano ad affrontare puntata dopo puntata argomenti di interesse nella società contemporanea. Capita così che in Willy, il principe di Bel Air, Willy si trovi a confronto con i problemi della guida in stato di ebbrezza, in Beverly Hills 90210 Kelly abbia a che fare con il problema dell’aborto, Arnold e famiglia, con l’uso di marijuana. La lista sarebbe pressochè infinita, ma il tema fondamentale è che in più o meno tutti i casi, il problema affrontato si risolve in un sistema chiuso che non trascina le proprie conseguenze nel mondo costruito per l’occasione¹. Quello che capita ad un personaggio di una serie è nè più nè meno un tentativo piuttosto evidente di sceneggiatori e produttori di dire la propria su questo o quell’argomento. Il protagonista seriale diventa così il megafono di un modo di pensare che amplifica l’ideologia dominante e tende a non rompere quegli argini culturali che imbrigliano il progresso alla dottrina tradizionale. Piuttosto li innalza. Li rafforza. E diventa antonomasia moraleggiante.

La serialità che abbiamo conosciuto nell’ultimo ventennio del XX secolo è stata in gran parte quella che ha sfruttato più palesemente lo specifico del prodotto a episodi: il ritorno del già noto. Una trama sempre diversa con un’architettura sempre uguale: situazione di equilibrio iniziale – elemento di rottura/disturbo – ricostituzione della serenità originaria, ritornando ad un punto zero che sarà la base di partenza per lo spunto narrativo dell’episodio successivo. La progressione della narrazione è perciò stabilità all’interno di regole precise che, sebbene porti ad una crescita dei protagonisti (Star Trek, Friends, Dawson’s Creek) si giova in realtà di una ciclicità che permette al format di progredire all’infinito con un meccanismo che a partire dai primi anni del 2000 ha trovato contaminazioni con altri modi di racconto fino ad arrivare alla sua antitesi che trova la sua forma più pura in Breaking Bad.

L’introduzione di una trama che lega un episodio all’altro nasce ideando un racconto di ampio respiro che mira a creare una maggiore affezione per lo spettatore al prodotto tv.
I primi esperimenti di questo tipo di racconto erano poco coraggiosi, mantendo volta dopo volta una struttura ad episodio singolo connessi soltanto in minima parte l’uno con l’altro. Anche in anni più recenti con l’affacciarsi delle delle Serie di Alta Qualità (quelle con budget a 6 zeri per ogni puntata) questo tipo di struttura narrativa ha sofferto del bisogno dello spettatore di avere un prodotto cotto e mangiato che potesse essere compatibile con l’incostanza del fruitore medio. In House M.D.² (2004-2012) troviamo un interessante momento in cui la serie, che procede generalmente come abbiamo detto per episodi autoconclusivi, abbraccia il serial, ovvero diventa la cosiddetta “serie serializzata“. Ancora acerba come intelaiatura, abbiamo però un passo nella direzione del serial puro, la telenovela: una storia continua che viene spezzata costantemente. La costruzione disorganica (e se vogliamo scolastica e prevedibile) degli episodi di Doctor House, proprio per l’ingenuità con cui è realizzata rende bene l’idea del concetto in esame: ogni puntata è impostata secondo momenti in cui il protagonista e la sua troupe lavorano al caso della settimana e altri frangenti in cui quella che potremmo chiamare macro-trama (la storia d’amore con la Cuddy, i problemi personali di House, l’amicizia con Wilson) viene portata avanti. Incrociare il formato della serie in questa maniera riporta nuova linfa nel format che guadagna l’affezione di diversi generi di fruitori: ottiene l’attenzione di chi ha soddisfazione nel godere di uno spettacolo pienamente autosufficiente, come se guardasse ogni volta un film autonomo, ma allo stesso tempo appaga anche lo spettatore che brama la visione di un progetto più ampio, un racconto più paragonabile ad un libro che ad una striscia a fumetti. A metà tra la premeditazione puramente pragmatica della produttività hollywoodiana e una precisa scelta stilistica, la fusione dei formati seriali ha avuto fortuna e ne ritroviamo l’applicazione sempre più severa nella fiction post 2000. Un’ulteriore pagina in questa direzione vede come protagonista Dexter (2006-2013) che nel proprio metodo di racconto alterna la cattura del cattivo del giorno all’evoluzione dei personaggi e della trama molto avvincente, salvo poi perdersi in un bicchier d’acqua nell’ultima fatale stagione. Se in Doctor House il cardine della narrazione erano i casi che il brillante medico doveva risolvere ad ogni episodio sfoderando il colpo di scena più o meno annunciato durante i 40 minuti precedenti, in Dexter il peso specifico dei rapporti tra i protagonisti assume maggiore importanza della caccia alla nuova preda, che di volta in volta il protagonista intraprende, fino a sovrastarla completamente. Il coronamento del running plot ai danni dell’anthology plot avviene però con la High Quality Serie che più di tutte ha rivoluzionato la fruizione dell’oggetto seriale: Lost (2004-2010). Serie evento, diventata un fenomeno culturale, ha messo in luce e, nell’arco degli anni, sviluppato le potenzialità della convergenza mediale ³; ha inoltre segnato un’ulteriore e quasi definitivo step nella serializzazione della serie, intraprendendo un lungo cammino di 121 puntate direttamente e inestricabilmente concatenate tra loro (con l’unica eccezione del tremendo episodio Exposé *¹). La formula narrativa dell’anthology plot (episodio autoconclusivo) non è però assente nella creatura di Abrams che impernia il racconto di ogni appuntamento settimanale attorno ad un protagonista, sfaccettandone la personalità all’interno del running plot di puntata e colorandone i particolari attraverso l’innovazione stilistica del flashback, più tardi del flashforward,  che rappresenta il cuore autosufficiente del singolo episodio (con le dovute limitazioni, in quanto anche i flashback sottostanno ad una stretta concatenazione tra loro). Il soggetto di un gran numero di puntate inoltre tende a investigare in modo risolutivo un tema filosofico/morale andando così ad alimentare la forza intrinseca dell’autocompletamento, senza però mai fornire un epilogo decisivo. La dinamica della trama principale concatena gli episodi in una inestricabile interdipendenza tanto che la fruizione di Lost non può che essere goduta esclusivamente dall’incipit della serie. Motivo per cui i naufraghi di ABC non hanno avuto successo presso ogni genere di spettatore, ma soltanto in quella fascia di pubblico che osserva l’oggetto audiovisivo con costanza e disciplina. Per disciplina si intende la fedeltà all’appuntamento programmato, tipico del pubblico delle serie che però, in merito a Lost deve essere religiosamente attento da seguire con dedizione ogni frammento. E’ da questa necessità di conoscere tutti i tasselli della storia raccontata che Lost trae la propria forza, creando una comunita i cui adepti interessati al prodotto non potendo rimanere schiavi di una programmazione televisiva feudale fruiscono dei diversi episodi attraverso canali alternativi che da allora in avanti verranno sfruttati come mai prima. Parliamo naturalmente del fenomeno del download *² che pemette un consumo dell’audiovisivo in pressochè qualunquè parte del globo. Se quindi per milioni di spettatori sparsi per il mondo la sorgente degli episodi diventa il personal computer e non  più la televisione (come già avveniva da anni per innumerevoli ragioni che variano da luogo a luogo) con Lost tutti gli altri aspetti del fandom per una osmotica proprietà transitiva invadono il web [Lost Experience, Lostpedia, i vari Webisodes, gli Hoax Movies ***², etc.] attuando un fenomeno di convergenza mediale di proporzioni colossali. E’ quindi con la serie di punta dell’emittente via cavo ABC che la connessione culturale diventa allo stesso tempo organica e sconfinata.

Se però in Lost l’attenzione era convogliata nei più diversi e disparati canali di interesse (i misteri, la filosofia, l’amore per i personaggi), Breaking Bad raccoglie quest’eredità riconfigurandola nell’apprezzamento puro dell’opera d’arte (nell’epoca della sua riproducibiltà tecnica ndr). Cioè ci si innamora di Breaking Bad, non per una malriposta fiducia in una suspence che verrà disattesa, ma perchè ci si trova ogni volta di fronte ad un piccolo capolavoro di cui godere appieno.

La nuova Golden Age del formato seriale si è quindi strutturata in una moltitudine di linguaggi che, grazie ai predecessori del capolavoro di Gilligan, si ritrovano a concorrere nella definizione di un’identità legata ad un oggetto di culto che diventa in un determinato momento storico una vera e propria sottocultura parallela e convivente con quella dominante. L’aspetto straordinario è che se in passato i movimenti culturali si creavano attorno a fenomeni che potevano vantare una molteplicità di attori che concorrevano alla sua definizione, ora, grazie ad una multimedialità onnipresente e di conseguenza ad una interconnessione tra gli individui via via sempre maggiore, il perno del nuovo microsistema culturale diventa un singolo oggetto. Nella fattispecie Breaking Bad.

Assistiamo così al fenomeno del fandom in cui, nei modi di condivisione culturale propri dell’intermediazione contemporanea, i fan di Breaking Bad individuano modi per replicare Walter White (il protagonista della serie) in un videogame, con tanto di tutorials postati su youtube che ottengono in breve tempo migliaia di views. GTA V ***¹, uscito il 17 settembre sul mercato internazionale *³ a ridosso dell’epilogo Breakinghiano (5×16 29/09/2013) offre, in un modo tipico di quello che una volta erano le tracce fantasma delle musicassette, la possibilità di trasformare Michael De Santa in Walt.

Rimanendo in tema GTA si noti come collegamenti meno diretti ma in egual misura lampanti possano comparire in un’altra clip, in cui Frank Matano, conosciuto per aver partecipato al famoso e longevo tv show Le Iene, posta il suo gameplay su youtube indossando una maglietta con una stampa che ai più potrebbe sembrare anonima, ma che un attento spettatore di Breaking Bad non fatica a riconoscere come il logo dei ristoranti di Gus Fring, Los Pollos Hermanos.

Los_Pollos_HermanosLos Pollos Hermanos Logo

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Revolution (di stocazzo)

•ottobre 21, 2013 • Lascia un commento

 

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Che sia di lezione.
Ogni prodotto che ha tra i suoi ideatori, autori, co-autori, produttori esecutivi, o anche solo simpatizzanti, uno dei responsabili di Lost è una patetica boiata. In questo caso l’elemento che ci deve far capire che siamo di fronte a una fesseria apocalittica è J.J.Abrams tra gli executive producers. Di rivoluzionario in questo schifo-drama non c’è niente. Nemmeno la sigla d’apertura.

Gianpaolo Fieramonti Stacchi Consorzi

Under the shit

•ottobre 13, 2013 • Lascia un commento

Under the dome

Se un branco di scimmie sodomite venisse buttato in una stanza a battere dei tasti a caso su macchine da scrivere il risultato che ne verrebbe fuori sarebbe di un pelino superiore alla sceneggiatura di Under the Dome. Sulla carta questa serie televisiva targata CBS (dopo un ripensamento della saggia Showtime  – che non è infallibile ma è pur sempre la casa di Dexter e Homeland) a prima vista ha tutti i numeri al posto giusto: annovera tra i suoi produttori esecutivi Steven Spielberg e Stephen King e tra gli attori Dean Norris e Mike Vogel.

Steven Spielberg e Stephen King che hanno voce in capitolo in una produzione milionaria? Sarà sicuramente un capolavoro. Guardiamolo.
Già dalla prima puntata qualcosa non quadra però. I personaggi sono senza spessore, la storia ha un sapore anni ’80, e per dirla tutta anche gli effetti speciali sembrano un po’ agè. Continuiamo a guardarlo, magari migliora. In fondo i nomi di Spielberg e King dovranno pur servire a qualcosa. Si. Servono come specchietto per le allodole. Come miele per le mosche. O meglio, cacca. Si non ho scritto vacca. Ma cacca, cacca, cacca. E’ un’affermazione bizzarra sostenere che un prodotto legato a due nomi tanto importanti possa essere paragonato agli scarti solidi che produciamo. Ma mentre ognuno di noi ha il buon gusto di farli in un water, i creatori di questa serie hanno pensato che la loro merda fosse così bella e profumata da distribuirla nelle case di milioni di spettatori. Ben 13 i milioni al debutto della serie. E oltre 14 nel finale.

Non voglio in ogni caso credere che questa serie imbarazzante possa essere stata causata dai due grandi autori sopra menzionati. Cerco un colpevole. E guarda chi ti trovo? Brian Keller Vaughan. Il creatore, sceneggiatore, e maggior responsabile di questa offesa all’intelligenza è nientemeno che uno degli ex sceneggiatori di Lost.

Tutto torna.
Ora che ci faccio caso ogni volta che c’è lo zampino puzzolente di un ex ideatore/sceneggiatore/produttore di Lost mi trovo di fronte ad un audiovisivo irriguardoso del mio raziocinio; irrispettoso della mia levatura riflessiva. Come con Super 8 creato e diretto da J.J.Abrams che illude lo spettatore. Per la prima mezzora lo illude che vedrà qualcosa di interessante. Un film degno di essere visto e rivisto. E invece piano piano si accartoccia su se stesso come le peggiori pellicole sy-fy anni 60. E che dire di Alias? Pallida serie tv trascinatasi per 4 stagioni quando già a metà della prima capisci come andrà a finire, indica forse il miglior momento creativo del presto scomparso dalle scene J.J.
L’ignobile Damon Lindelof è riuscito a rendere inammissibile perfino Prometheus, l’ultimo film del grande maestro Ridley Scott, firmandone la sceneggiatura, e quindi la condanna all’oblio. Questi piccoli mostri si sono diffusi nelle alte strutture della fiction statunitense, ma dopo una serie di insuccessi seguita da un’altra serie di insuccessi auspichiamo la loro estinzione dalla scena contemporanea.

Un’ulteriore conferma di quanto U.t.D. fosse esecrabile è stata la piena volontà da parte di Rai Due di acquistarla e trasmetterla a partire dal luglio di quest’anno.

Tornando al membro di questa abietta comitiva, gioca a suo favore un inspiegabile buon risultato negli ascolti che ha fatto propendere la CBS per un rinnovo della serie. Pertanto per l’estate 2014 aspettiamoci un orrore ancora maggiore di quello appena terminato. Subire una puntata di Under the Dome è avvilente. I personaggi bidimensionali che si impara a conoscere non hanno una motivazione precisa, o se cel’hanno non la perseguono con coerenza, ma sembrano marionette che cambiano direzione a seconda del vento. I dialoghi sono a dir poco imbarazzanti. Ma il vero motivo per cui Under the Dome suscita una sconfinata pena è che è la fiera espositiva internazionale del Clichè. Senza andare tanto per il sottile, quando un personaggio minaccia di morte “la persona a te cara” e immediatamente entra in scena su una musica alla Giacchino “la persona a te cara”, io come spettatore mi sento seccato. Alla seconda ovvietà comincio ad essere seriamente stizzito. Alla terza sono ferito nell’intelletto. Questo è lo stato d’animo in cui lo spettatore viene disposto dopo i primi 10 minuti di visione di una qualunque puntata, che continua con una serie di banalità fino agli inevitabili finali da pesce lesso. Il tenore dell’avvizzimento creativo è apprezzabile anche nel 13esimo episodio che conclude la purtroppo prima stagione in cui non mancano perle di sceneggiatura come la seguente:

Barbie :”puoi anche credere di essere un dio per queste persone, ma sappiamo entrambi cosa sei veramente.”

Big Jim :”E cioè… un criminale?

Barbie :”Peggio. (pausa a effetto in modo che lo spettatore possa chiedersi “ma cosa è che sarà mai peggio di un criminale?”) Sei un politico”. (“è verooo!! un politico è peggio di un criminale!! Accidenti! L’ha proprio offeso di brutto!” penserà a questo punto il nostro spettatore tipo per il quale è stata pensata la serie).

Questo magnifico esempio di sceneggiatura dà un’idea di come sia spicciola e pidocchiosa la visione di autori e sceneggiatori che lavorano a questo prodotto. Persone che si suppone professioniste del settore che però ignorano il concetto di negoziazione che avviene tra cinema/tv e realtà in cui il processo di scambio culturale tra i due piani avviene senza forzature;  trattano invece la serie tv non più come un oggetto d’arte, sottoposto a quelle regole di sublime ambiguità semiotica influenzate dall’intentio auctoris e intentio lectoris (per vederla comunque in maniera superficiale e didascalica) ma più come un oggetto pubblicitario che veicola in modo piatto e pedissequo un messaggio che incontri il favore del proprio pubblico bersaglio cavalcando l’onda populista apertamente, e esplicitando il chiaro target a cui è indirizzata la serie: l’americano medio obeso e sdentato che abita le periferie delle città e le campagne dell’ignoranza. Milioni di americani che nutrono il proprio corpo da McDonald e la propria mente sulla CBS.

JeanMatisse de la Piss

L’Ora Nera

•aprile 21, 2012 • Lascia un commento

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L’orrenda locandina dell’ Ora nera non rende giustizia a quello che state per vedere, se state per vedere l’ Ora nera.(1) Non se ne vedevano di così brutte dai film di Eddie Murphy degli anni 2000.

The Darkest Hour, letteralmente “l’ora più buia” (ma non è questa la sede per esaminare il busillis dei titoli tradotti per la distribuzione italiana) è un discreto B-Movie di genere che può vantare la garanzia di Emile Hirsch come protagonista.

Spesso le pellicole di secondo piano entrano nel mercato come riempitivi del cartellone cinematografico, arrivano al grande pubblico e vengono dimenticate subito dopo. Ma. Questo piccolo prodotto costato poco più di 30 milioni di dollari riesce a evocare atmosfere di un capolavoro del fumetto come “l’eternauta” e ad ambientare una storia di fantascienza in un paese non anglofono. La scenografia di una Mosca desolata ricoperta di “polvere di umani” una volta tanto sostituisce i palazzi newyorchesi in rovina (in stile “Io sono leggenda“) o qualunque altro scorcio nordamericano già postprodotto con ogni tipo di effetto catastrofico. Naturalmente sarebbe stato troppo chiedere anche un protagonista non made in USA, ma si va avanti un passo alla volta.

Il filone dell’invasione aliena è forse la sottobranca della fantascienza che annovera il maggior numero di esponenti; è perciò difficile essere completamente originali nella trattazione dell’argomento. Nel nostro Ora nera gli alieni invisibili sono una bella trovata funzionale al thrilling del film, ma l’attacco elettromagnetico pre-invasione fa troppo “la guerra dei mondi“. Inoltre l’incedere della trama a colpi di morti tra i compagni di viaggio è ormai un elemento che il pubblico ha imparato a riconoscere e rifiutare per sovraddosaggio grazie agli innumerevoli “Final Destination” e proprio per contrasto con questo cliché ci si sarebbe potuti sbarazzare dei co-protagonisti meno ovvi piuttosto che di quelli bollati dall’inizio della trama con la scritta luminosa “io morirò” ben stampata sulla fronte. Gli effetti speciali alla Vegas Studio sono imbarazzanti, ma la trama non fa troppo affidamento sugli effetti e nemmeno sulla spiegazione scientifica per la quale gli alieni abbiano scelto in nostro pianeta.

Malgrado tutti questi punti deboli il film fila liscio e si lascia guardare fino alla fine, omettendo con intelligenza scene d’amore insensatamente lunghe, scene d’addio ridicole e tutta quella serie di inutili fesserie che sembra “debbano” essere in un film causa la mancata presa sul pubblico.

Il pregio più grande dell’ Ora nera infatti è il suo essere scarno, quasi completamente privo di superflue messinscena usate come trucchetti truffaldini che mirano all’affezione del pubblico per il personaggio principale. Consigliato agli amanti dei B-Movie di fantascienza.

Sconsigliato a chi dice “Minzega, 2012 è troppo bello quando esplodono le shtorie”.

*(1) – Per apprezzare questa frase leggete “Storia della tautologia moderna: il pensiero nel pensiero è il pensiero nel pensiero”.

•gennaio 26, 2012 • Lascia un commento

23/05/2010

A quasi due anni dal nostro ultimo post siamo pronti per ricominciare.
Abbiamo così tanti argomenti da recuperare che… non li recupereremo.
Ci siamo persi le premiazioni degli ultimi festival di cinema più importanti, abbiamo ignorato le fantastiche inventive pubblicitarie tra il momento di percezione di crisi e l’assoluta certezza che questa crisi avrebbe cambiato il nostro modo di intendere il panorama circostante.
Abbiamo purtroppo perduto le mirabilie del mondo politico mentre si a affannava rimanere a galla a dispetto della propria incompetenza, e, cosa imperdonabile, abbiano perso il momento in cui il gigante della comunicazione italiana ha dovuto abbandonare, anche se forse solo momentaneamente, lo scranno di puro privilegio che usava come scudo spaziale.
Come è stato possibile che tanti professionisti della comunicazione e affini abbiamo lasciato che importanti pezzi della storia sociale, comunicativa e dell’ingegno  passassero inosservati sotto il loro sguardo ormai spento?
La risposta è 23/05/2010. Una data lontana eppure ancora così vicina.
Cercando questa data su google, si troveranno link per la Gazzetta dello sport, per Report, collegamenti a un raduno di BMW a Modena, o informazioni sulla 12° puntata di “tutti pazzi per amore 2”, ma questo non vuol dire che sia la verità.
La verità è che il 23 maggio 2010 si conclude con disonorevole indecenza quella che poteva e sembrava essere fino ad un certo punto la serie televisiva più interessante di sempre.
Domenica 23 maggio di due anni fa andava in onda sulla ABC statunitense con una doppia puntata l’indegna conclusione di 6 anni di Lost.
Il fenomeno del fandom e più in generale la passione per un prodotto nuovo e capace di rivoluzionare l’ambito dell’intrattenimento (che sia la Wii nel campo dei videogiochi, l’iPhone nel mondo smartphone, Matrix nella sfera cinema o appunto Lost nell’habitat delle serie tv) possono essere sentimenti piuttosto forti, che tendono a impossessarsi di quell’area che nella società moderna sempre più spesso concorre a definire l’identità di un individuo. Affermazione che può sembrare pesante a primo impatto, ma che, per chi ha esperito questo tipo di legame, ad un’analisi poco più che superficiale si rivela immediatamente vera.
Mi riferisco naturalmente al mondo occidentale che organizza il tempo dei suoi piccoli elementi costituenti, detti persone, in lavoro e tempo libero.
Il lavoro offre un primo livello di identità, che è quella pubblica, riconoscibile e funzionale nelle relazioni col prossimo in una dimensione superficiale di conoscenza, che esaurisce la sua missione all’interno di una serie di canoni prescritti e sottintesi che non contemplano rinegoziazioni di individualità nella circoscritta giurisdizione lavorativa.
Questo è quando si dice: “io non sono il mio lavoro”.
Non rimane quindi, all’individuo schiavo del capitale, se non il cosiddetto tempo libero per ridefinire la propria identità a svantaggio di quella contrattualmente affibbiatagli, nella quale consapevolmente o meno dirige le sue attenzioni, per i più disparati motivi, in azioni o cose che ne strutturano la soggettività.
Se infatti come venditore di panini non posso esimermi dal vendere panini, perché altrimenti non avrei i soldi per mangiare i panini, nel tempo libero ho invece facoltà di scegliere quello che mi interessa perchè non vincolato ad obblighi contrattuali.
L’intrattenimento quindi, nella misura in cui ha in forza il nostro tempo libero, essendo espressione di scelte libere diviene anche artefice della nostra identità. Questo crea un’affezione con l’oggetto del nostro intrattenimento che può essere uno sport, così come può essere appunto una serie tv.
Non è un caso che film che incontrano i favori di un vasto pubblico o fortunate serie tv siano detti oggetti di culto. Culto in questo caso è parola mutuata naturalmente dal contesto religioso, che storicamente è stato uno degli attori più forti nella definizione identitaria del singolo individuo o di un intero popolo.
Trovarsi quindi a “contatto” con Lost ha suscitato in molti un rispetto al limite del religioso che ha creato un legame di affezione se non profondo, quantomeno concorrenziale nella ridefinizione identitaria del sè nella misura in cui la passione per gli enigmi e i temi trattati ha occupato il “sacro” tempo libero al di là della pura visione dei 42 minuti di ogni episodio.
Ora, immaginate che un convinto cattolico che crede ciecamente nella Chiesa e spende il suo tempo libero nell’assoggettarsi ai dettami di un organismo che egli crede diretta emanazione del Signore, scopra tutto d’un tratto che gli stessi uomini che predicano la parola di Cristo commettano criminali atti libidinosi nei confronti di inermi e innocenti bambini che si suppone debbano invece educare.
Ora sostituite il convinto cattolico con il fan, e la Chiesa con la serie tv oggetto di culto. Ma soprattutto rimpiazzate i bambini con l’innocenza e l’ingenuità che uno spettatore offre disarmato mediante la “sospensione dell’incredulità” che gli permette di accettare per vere tutte le premesse e le conseguenze che si suppone alla fine lo premieranno cosiccome un cattolico accetta tutte le regole e le restrizioni della sua religione in fremente attesa del Paradiso dopo l’inevitabile trapasso.
Scoprire che non c’è nessun punto d’arrivo, e che tutti dogmi che si è accettati per anni non erano altro che sconclusionate parole ottenebranti menti al solo scopo di immagazzinare ricchezza (ciò è valido sia per la Chiesa che per Lost) è un abisso di frustrazione e delusione da cui la redazione di “Com’è quel film” è riemersa, e ora con occhio un po’ meno innocente (non in senso estetico) e con più feroce cinismo osserverà il panorama mediatico per riportarvene una fedele fotografia virata nei toni della convinzione.

Giansignore Merendini

Nel paese delle creature selvagge

•marzo 28, 2010 • 5 commenti

Questo condensato di commedia grottesca e stupefatta noia è la terza regia del poco prolifico Spike Jonze che tutti hanno potuto odiare una decina di anni fa grazie al suo primo lungometraggio Essere John Malkovich (1999). 3 anni dopo fu la volta di Il ladro di orchidee, altra stranizia del “mondo degli autori”. Se queste due pellicole potevano vantare la brillante sceneggiatura di Charlie Kaufman, quest’ultimo Nel paese delle creature selvagge risente proprio della mancanza della scrittura Kaufmaniana per essere rimpiazzata da quella dello stesso Jonze che seppur talentuoso come regista “figurativo”  ha difficoltà a comprendere la differenza tra l’interno della sua testa e l’esterno. Prigioniero di un processo mentale contorto riesce, in questa sua ultima opera, a essere tanto leggero quanto raccapricciante.
Non è facile liquidare questo film in poche parole, essendo stato definito un gioiellino, un capolavoro, e simili. Ma noi proviamo lo stesso.
E’ un piccolo gioiello di noia e bislacco raccapriccio che riassume in se il particolare potere della malinconia al limite dello spleen.
Le creature selvagge ricordano tanto quei pupazzi giganti stile tardi anni ’80 che popolavano le tv locali le domeniche d’inverno.

L’unica nota interamente positiva è la colonna sonora firmata da Karen O and The Kids, che racconta la storia meglio di quanto non facciano le belle immagini.

Riconosciamo però, in questa sede ,un merito di Jonze: è il produttore (colui che ha messo i soldi) e uno dei creatori, della fortunata serie tv Jackass

Consigliato a chi dice “Cioè guarda, secondo me essere gion malcovic è un capolavoro”.
Sconsigliato a chi invece non si sognerebbe mai di dire una minchiata del genere.
Iper-sconsigliato ai bambini (a quelli simpatici almeno).

2012

•marzo 18, 2010 • Lascia un commento

Se la banalità, la prevedibilità e la superficialità fossero dei valori positivi, questo sarebbe uno dei migliori film mai fatti nella storia dell’umanità. Ma siccome non lo sono, bisogna ammettere che questa pellicola rappresenta solo uno sfogo masturbatorio di effetti speciali fini a se stessi.
Diretto da Roland Emmerich, che più che un inclinazione per il genere sembra avere un ossessione (Stargate, Independence Day, Godzilla, The day after tomorrow, 10.000 A.C.) questo compendio di stereotipi insipidi e grossolanità scontate gioca la sua unica carta nei visual effects che mostrano come una catastrofe mondiale possa ridurre in pezzi le più grandi città del mondo, ma soprattutto d’America. E’ stancante notare come tutti i registi (o chi per loro) che si trovino a confrontarsi con eventi distruttivi su scala globale facciano esplodere sempre più o meno gli stessi 10 monumenti più famosi al mondo: così tramite un linguaggio simbolico tipico dei bambini in età prescolare, se viene distrutto il Partenone, il Cristo Redentore, e la Cappella Sistina, allora vuol dire che tutto il mondo è andato in pezzi. Sineddochè tipiche di una pidocchiosità mentale adatta a una platea di scimmie urlanti che per mangiare i popcorn hanno bisogno di un manuale illustrato, o finiscono per infilarseli nel culo.
Quindi io mi incazzo quando Avatar viene declassato con semplicistica presunzione a “film di effetti speciali” perché rischia di venire associato, nella mente dei più, a opere filmiche del tenore di 2012 o The day after tomorrow (che sarebbe dopodomani). Lo spunto della trama (se così vogliamo chiamarla) è poi così frusto e logoro (l’assurda e infondata credenza in un’arbitraria e consapevolmente errata interpretazione del calendario Maya) che la profondità dell’argomento è nettamente superiore persino nelle puntate di Enigma (frettoloso e superficiale programma tv di Raitre) dedicate all’argomento, che risultano più avvincenti, pause pubblicitarie comprese, di questo costosissimo filmetto.
E’ inutile comunque che continui a sparare a zero su questo ennesimo prodotto hollywoodiano (nel senso peggiore del termine), perché tanto ci siamo capiti.

Sconsigliato a chi non ha due ore emmezzo da buttare.
Vivamente consigliato ai branchi di scimmie amanti di quel pizzicore unico che ti danno i popcorn nel culo.

L’uomo che fissa le capre

•marzo 18, 2010 • Lascia un commento


Sembra una commediola

ventilandosi la gola

Consigliato a chi ha finito i lassativi
Sconsigliato a chi può scegliere

Italian Activity

•febbraio 9, 2010 • 2 commenti

Ci siamo sbagliati. Nel nostro post Paraprassic Activity avevamo ipotizzato che a causa della banale pubblicizzazione e del ritardo con cui arrivava in sala, Paranormal Activity non avrebbe raggiunto grandi incassi. Ci siamo sbagliati di grosso. Abbiamo sottovalutato l’enorme potere del passaparola.
Nel primo fine settimana di programmazione nelle sale italiane infatti il nuovo film di Oren Peli ha già guadagnato 3.669.000 € (fonte MyMovies), piazzandosi secondo tra i più visti in sala.
Curioso che Oren Peli abbia incassato “solo” i 300.000 $ dei diritti che la Paramount ha speso per acquistarlo. La major ha poi investito circa 10 milioni per una campagna pubblicitaria che come abbiamo già detto si è rivelata molto efficace.
Ora, nel nostro paese della politica delle minacce arriva un’altra insperata manna dal cielo per questo brillante horror movie.
Quelli che sono andati a vederlo infatti si sono accorti che PARANORMAL ACTIVITY FA DAVVERO PAURA.
I maggiori quotidiani nazionali di oggi riportano la notizia: “Paranormal fa troppa paura. Mussolini ‘va vietato ai minori” (La Repubblica) e “Paranormal Activity, malori in sala e accuse” (Il Corriere della Sera).
Difatti pare che il nostro pubblico, ormai abituato a “horror-panettoni” in stile The Grudge, Hostel, o Saw non regga la tensione di fronte ad un vero film dell’orrore che non è tale solo nel nome.
Su Repubblica si legge: “Secondo il presidente del Codacons, Carlo Rienzi: “I minorenni che in questi giorni hanno subìto effetti legati alla visione del film, quali attacchi di panico, tremori, vomito, stato di choc eccetera, potrebbero richiedere il risarcimento dei danni in Tribunale“.
Tremori? Vomito? Stato di choc? Mancano problemi di minzione e rush cutaneo e verrebbe catalogato come virus di livello 4.
Il Corriere del Mezzogiorno riporta anche “Il caso più grave […] di una ragazzina di 14 anni che, in evidente stato catatonico, è stata portata in ospedale“. Anche lo stato catatonico.
Quanti anni era che un film non provocava effetti neurovegetativi? Si vocifera che a Guantanamo lo usino per estorcere le confessioni ai prigionieri. In Italia intanto si è acceso un dibattito tra personalità di un certo spessore e una di certa levatura morale.
Alessandra Mussolini, il cui cognome dovrebbe spingerla ad un voto del silenzio perpetuo, si erge a paladina dei più deboli (quelli che lei in cuor suo chiama ancora balilla) rivolgendosi al brillante Ministro della Cultura Sandro Bondi chiedendo come mai il film non sia stato vietato ai minori. La richiesta è legittima perché in effetti un bambino di 12 anni (che in generale è molto impressionabile) può venire turbato non poco dal terrore psicologico che dal film scaturisce. Il punto è che per coerenza è la stessa Mussolini che andrebbe vietata ai minori. Notate l’equilibrio di questa personcina che nel dichiarare “meglio fascista che frocio” dimostra tutta la sua profondità.

Un appello alla censura che venga da un tale pulpito fa sorridere anche i meno sorridenti.
Come riporta il Corriere “l’esponente del Pdl spiega infatti che si tratta di un «film ad alto contenuto ansiogeno e non vietato ai minori, che sta provocando numerosi casi di attacchi di panico e di problemi psicologici tra i giovani»”. Che inventio, che dispositio e che elocutio!
“I giovani sono a rischio!” “Problemi psicologici!”. Non mi pare di aver sentito la mussoliniana voce lamentarsi dei problemi psicologici derivanti da una prolungata visione di Canale 5. Forse perché ha preso la residenza nell’ammiraglia Mediaset e non è educato sputare nel piatto in cui si mangia. Fatto sta che gli appelli, anche se a volte giusti, arrivano sempre dalla parte sbagliata.
Ma il Corriere della Sera ci delizia anche con un’altra autorevole opinione, quella del Ministro della Difesa Ignazio La Russa, di cui nel seguente filmato possiamo ammirare la compostezza e la moderazione, oltre ad una sobrietà accomodante che invoglia ad un costruttivo dialogo in merito agli argomenti trattati.

(Corriere) LA RUSSA: «STOP AL TRAILER IN TV»  – Sulla vicenda si è espresso anche il ministro della Difesa che ha chiesto di vietare il passaggio del trailer del film in tv, almeno nelle fasce non protette e che comprendono un pubblico di minorenni. «Ho visto mio figlio che aveva paura di quello spot, di quel trailer passato in tv – ha detto Ignazio La Russa. La tv dice tante parole, si fa un gran parlare di fasce protette, di programmi e poi infilano in una fascia oraria “frequentata” da bambini 10 trailer di quel film, che poi credo facciano più paura del film stesso».
Naturalmente, ben lungi dal vedermi censore di tali illuminate opinioni, vorrei argomentare una debole critica. Non metto in dubbio che la prole di La Russa abbia paura del trailer di Paranormal Activity, ma la citazione del Ministro termina conclude con una conclusione logica errata perché basata su premesse non vere dettate dalle sue esperienze precedenti. Infatti dire che “credo che il trailer faccia più paura del film stesso” dimostra una certa assuefazione a quel fenomeno che abbiamo visto nel post precedente, per cui spesso un horror-movie viene reclamizzato tramite un trailer montato ad arte che racchiude tutte le scene più ripugnanti del film, cosicché il prodotto intero spesso risulta un annacquato trailer di 2 ore in cui gli unici momenti horror sono quelli presenti nel filmato pubblicitario. Non è certo questo il caso, in quanto ribadiamo che la potenza di Paranormal Activity sta nel riuscire a generare un’angoscia continua nello spettatore senza avvalersi di banali trucchetti. Com’è possibile indurre l’orrore fondato su tale presupposto con un trailer di 2 minuti?
Ma quel che mi stupisce è che La Russa junior, estremamente impressionato da questo trailer non lo sia altrettanto da quello di Saw VI, o di Hostel 2 o di The ring.
Parla di fasce protette il ministro.
Qua sotto pubblico un filmato della fascia protetta sulla televisione del suo padrone:

Sicuramente il figlio non ne sarà terrorizzato. Anzi. Ma non mi sembra che l’impavido difensore di simboli, si lamenti di quanto il clima televisivo nazionale offenda di continuo i precetti che proprio quel simbolo rappresenta. E l’ “onorevole” Mussolini si preoccupa per i danni psicologici di un film piuttosto che di un bombardamento mediatico del regime televisivo che da 10 anni a questa parte educa a varie nefandezze.
Evito di proporre esempi. Basta accendere la televisione su un qualunque canale, proprio nelle cosiddette fasce protette.
Inoltre, sempre sul Corriere della Sera troviamo un capolavoro di cafonaggine del critico cinematografico Mauzio Porro che vale la pena citare: “La pochezza espressiva del tutto è lampante, primo perché ricalca molte storie simili, poi perché la ripetitività regna sovrana. I due coraggiosi attori scelti con un annuncio, Katie Featherston e Micah Sloat, hanno affrontato la prova forse con psicofarmaci (il comodino non è ben inquadrato). Litigano da invasati, ma la sceneggiatura non permette gran che: lei non fa che dire Oh mio Dio, lui sintetizza con la famosa espressione nazional popolare con due zeta, ma coniugata in più inflessioni, sussurrata, gridata, chiosata“.
Il signore che scrive parla di “pochezza espressiva” e poi due righe dopo non sa far meglio che ricorrere a rozzezze del tipo “i due attori hanno affrontato la prova forse con psicofarmaci”, seguito da un tristissimo tentativo di battuta tra parentesi.

Con questi piccoli esempi possiamo concludere che la “pochezza”, non solo espressiva ma soprattutto umana, ci circonda ovunque costantemente, ma Paranormal Activity in quanto piccolo capolavoro contemporaneo ne è indubbiamente estraneo.

Giansignore Merendini

Paraprassic Activity

•febbraio 5, 2010 • Lascia un commento

Come ormai siamo abituati, con un massiccio ritardo rispetto ai paesi normali, esce domani nelle sale italiane Paranormal Activity, horror-movie degno di questo nome, che nel nostro paese otterrà incassi che neanche La storia del cammello che piange.
La strada che ha portato questo film a very low budget (15.000 $) nelle sale di tutto il mondo inizia nel 2007, anno in cui viene girato da Oren Peli (regista debuttante di origine israeliana). Anche prima, se consideriamo che lo stesso Peli ne aveva iniziato la scrittura da qualche anno. Realizzato con un troupe ridotta all’osso: 4 attori di cui due protagonisti (Katie Featherston e Micah Sloat), un direttore della fotografia (Rodney Gibbons), un esperto di vfx (David Barbee) e un compositore per la colonna sonora (Mark Binder) il film viene presentato il 14 ottobre 2007 allo Screamfest Film Festival, una piccola competizione di film dell’orrore che si tiene ogni anno al Chinese Theatre su Hollywood Boulevard. Lì Oren Peli conosce un agente che lo aiuta a portare la “pellicola” (termine usato qui in maniera non letterale, perché girato in digitale con una mdp semi-pro) allo Slamdance F.F., importante festival internazionale del cinema indipendente (dello Utah) che si svolge contemporaneamente al suo omologo più famoso, il Sundance F.F. Quale di queste debba essere la rassegna che maggiormente rappresenta il cosiddetto “cinema indipendente” è oggetto di contesa; fatto stà che queste competizioni si traducono spesso in vivai per le grosse majors alla ricerca di prodotti già realizzati da sfruttare, esercitando il grosso potere di distribuzione nei circuiti delle sale cinematografiche.
La Dreamworks infatti lo acquista (al tempo controllata dalla Paramount Pictures), e dopo la vendita della Dreamworks Animation al gruppo indiano Reliance, Paranormal Activity rimane per così dire in eredità alla Paramount che ritenendolo un valido prodotto (già Spielberg l’aveva notato e indirettamente pubblicizzato) lo lancia in 13 città universitarie (USA) nel fine settimana del 25 settembre 2009. 13 città sono poche, ma la major sa bene che il passaparola tra i giovani studenti è più efficace del viral marketing.
La Paramount suggerisce però a coloro che volessero una proiezione nella loro città di segnalarlo sul sito eventful.com, promettendo che qualora registrasse un milione di richieste, la distribuzione del film avverrebbe su scala nazionale.
La proiezione in tutti gli USA è cominciata due settimane dopo: il 16 di ottobre.
La questione è interessante già per due versi: innanzitutto perché (a memoria della nostra redazione) è il primo caso in cui sono gli spettatori a decidere dove verrà proiettato il film.
Secondo, perché finalmente le majors cominciano anche loro, nella loro singolare ristrettezza di vedute, a comprendere il potere della rete adoperandolo a loro vantaggio. Piuttosto che piangere, lamentarsi e minacciare cause milionarie contro il P2P-er, farebbero bene anche gli altri grossi Studios ad accettare il cambiamento dei tempi e abbandonare la zavorra neocon che li contraddistingue da sempre e che ha portato quasi alla rovina i loro colleghi discografici per analoghi motivi.
Paramount Pictures non è però un covo di sprovveduti e l’eccentrica campagna web è stata accompagnata (una volta decisa la distribuzione nazionale) da un altrettanto anomalo trailer che invece di mostrare le immagini del film ricostruendone bambinescamente la storia, esibisce la reazione del pubblico in sala durante la proiezione.

Geniale.
Il trailer ufficiale della Filmauro, che ne ha acquistato i diritti per la distribuzione in Italia, si incasella invece nel solito solco della banale ricostruzione del film con poche “paurose” scene intervallate da frasi in sovraimpressione presumibilmente (perchè tra virgolette) estrapolate dai giornali, come: “il film più terrificante e spaventoso dell’anno“, “non riuscirete più a dormire“, “un terrore profondo“, “l’esorcista dei nostri giorni“, “agghiacciante“.
Come da clichè questo dozzinale e allegramente pedestre trailer si conclude con la frase: “Paranormal Activity: il film che ha terrorizzato l’America“.
A questo punto mi pare che non sia più un merito provocare emozioni in un’America che ad ogni film è “sconvolta”, o “terrorizzata” o “agghiacciata” o “allarmata” o “turbata”.

Capisco che sia difficile innovare, ma questi neanche ci provano. Paranormal Activity è un prodotto atipico, strano e al di fuori della normale logica del marketing commerciale. Sarà necessario mantenere una linea di continuità o quantomeno di coerenza con queste sue proprietà ontologiche? Macchè. Le cose, anche in questi piccoli casi, anche in queste piccole cose, in Italia sono fatte “a cazzo di cane“.
Guardate una parodia del trailer horror realizzata da un acuto videomaker già un anno fa. Ha la struttura simile al trailer italiano in oggetto, ma è forse più accattivante sia visivamente che contenutisticamente:

La qualità non è certo il marchio distintivo della Filmauro che annovera tra le sue produzioni capolavori del calibro di Natale in crociera, Natale a New York, Il mio miglior nemico, Le barzellette, Mambo italiano, Christmas in love, e Natale a Beverly Hills.
E’ normale quindi che nella realizzazione del trailer il tratto dominante sia la fiacchezza: l’intercalare scritto tra le scene del film, quando non millanta un’america terrorizzata, farnetica: “il film più terrificante dell’anno” senza considerare che l’anno è iniziato soltanto da un mese. Impressionante.

In apertura abbiamo ipotizzato un flop commerciale di Paranormal Activity nelle nostre sale, derivante non dai demeriti della pellicola (veramente pochi) ma da scelte pubblicitarie e distributive sbagliate. Come già detto, il trailer italiano non intriga il pubblico più di quanto non faccia quello di un qualsiasi altro horror-idiota-movie come Drag me to hell. Ultima pellicola di Sam Raimi, che più che paura provoca imbarazzo per tutti coloro che hanno partecipato all’ esecuzione del film, dalla prima attrice all’ultimo aiuto microfonista.

Il video pubblicitario di Drag me to hell denota un minimo di impegno da parte dei realizzatori che se non altro si sono impegnati nella veste grafica dei titoli anche se il contenuto è paralizzante (sempre dall’imbarazzo); si legge infatti: “quest’anno – assisterete – al ritorno – del vero horror“. Per carità.
Il film in realtà è un’iperbolica buffonata-schifo-splatter e il punto è proprio questo. I due trailer non aiutano lo spettatore a capire quale dei due film valga la pena vedere. Anzi. Drag me to hell che può vantare uno spropositato budget a servizio di una storia baggiana corre il rischio di attirare più spettatori nelle sale, grazie ai suoi effetti speciali acchiappa-mosche, di quanto non riesca Paranormal Activity che fonda la sua potenza sulla pressione psicologica costante per quasi un’ora emmezza.

La seconda causa dell’astensione nelle sale che proietteranno il film è il ritardo con cui esso arriva in Italia. Basti pensare che il sito ufficiale del film (http://www.paranormalactivity-movie.com) ha già da tempo aperto la vendita in DVD, Blu-ray o Digital Download. Senza tener conto che già un mese fa sui circuiti P2P era disponibile una versione in alta qualità della “pellicola”, completa di sottotitoli in italiano.
E vedere questo film in lingua originale non è certo faticoso: pochi dialoghi, e per giunta in un inglese comprensibilissimo, rispetto alle normali storpiature slang americanoidi. Il doppiaggio italiano non potrà che cercare di eguagliare la tensione delle sfumature originali. Non potrà certo fare di più. Il pericolo è comunque, sempre quello di sentire le solite 3, 4 voci comuni a 10.000 film, che non aiutano l’immersione nel documentario che pretende una forte aderenza con la realtà.

Paranormal Activity in ogni caso, doppiato o non doppiato è formidabile. E’ un film dell’orrore che fa paura. In questi mesi è stato spesso paragonato a Blair Witch Project caso analogo, che nel ’99, con pretese documentaristiche (ma anche in quel caso trattavasi di mockumentary) cast e troupe striminziti, e un costo di produzione di soli 60.000 $ ebbe un enorme successo al box office. I dati parlano da soli: a fronte di una esigua spesa di produzione B.W.P. incassò quasi 250 milioni di dollari (248,639,099 $ fonte boxofficemojo) di cui 140 sul mercato interno. Ora il film di Oren Peli gli ruba lo scettro di film più remunerativo della storia che con soli 15.000 $ (altre fonti riportano solo 10.000 $) ha già incassato oltre 140 milioni $ (142,390,115 $) di cui 107 nei soli USA.

Non è un colpo di fortuna, perchè è uno dei pochi horror che innova per sottrazione. Allo stesso modo di Blair Witch Project è girato con camere a spalla, ma dove nel film del ’99 le mdp erano 2, ora è solo una tenuta quasi sempre da Micah (il ragazzo). Quando è Katie a tenerla si nota subito la differenza di mano: meno stabile, più insicura e traballante.
Inoltre la strategia della tensione è giocata quasi tutta su rumori off (fuori campo), sulle inquietanti attese e i piccoli ma efficaci effetti speciali: economici ma invisibili. Eccellente una delle ultime scene. Siamo ancora qui a chiederci come siano riusciti a realizzarla con un così basso budget.
Il tutto è recitato perfettamente e non si fatica a immedesimarsi nei giovani protagonisti. Ed è stato girato in una settimana. Incredibile.
Questo film è la dimostrazione che i soldi non sostituiscono il talento. Drag me to hell e oscenità simili non fanno altro che bruciare soldi per uno spettacolo adatto forse ai piccini delle elementari, o ai ragazzini delle medie che guardandolo in gruppo in una stanza buia possono spaventarsi a causa di un rumore improvviso in parallelo ad una immagine ripugnante.

La sozzura in stile Hostel auspichiamo che venga soppiantata nel mercato da piccoli gioielli come questo Paranormal Activity che, sebbene non accontentino quella modesta e immatura fascia di pubblico che rabbrividisce per ridicoli effetti splatter da milioni di dollari, almeno appagano quella grande fetta di spettatori che ama la tensione e preferisce vedere un film piuttosto che subirlo.

Giansignore Merendini