“Your business is your business. My business is keepin’ you out of custody.”
La precendente anafora nel 15° e penultimo episodio della quinta stagione del serial televisivo più osannato degli ultimi anni, appartiene a un personaggio, già presente nell’ombra da parecchio tempo prima (“I know a guy who knows a guy who knows another guy” Saul Goodman) che, interpretato da Robert Forster, conosciuto dal grande pubblico per aver interpretato Max Cherry in Jackie Brown, mantiene una calma e una dialettica tarantiniana che si accorda perfettamente al tono della serie che lo ospita, disvelando parte dei meccanismi che sottendono al successo di “rompendo male“. Più tardi torneremo su questa traduzione balilliana, ma per capirne tutte le implicazioni dovremo tracciare il percorso di questo volo pindarico.
L’iconografia del dramma televisivo tende a presentare personaggi che poco hanno a che fare con il cambiamento e che generalmente interagiscono con il mondo circostante in un modo prevedibile e poco spiazzante. La serie tv anni ’80 e ’90 offre il profilo di uno o più protagonisti che si trovano ad affrontare puntata dopo puntata argomenti di interesse nella società contemporanea. Capita così che in Willy, il principe di Bel Air, Willy si trovi a confronto con i problemi della guida in stato di ebbrezza, in Beverly Hills 90210 Kelly abbia a che fare con il problema dell’aborto, Arnold e famiglia, con l’uso di marijuana. La lista sarebbe pressochè infinita, ma il tema fondamentale è che in più o meno tutti i casi, il problema affrontato si risolve in un sistema chiuso che non trascina le proprie conseguenze nel mondo costruito per l’occasione¹. Quello che capita ad un personaggio di una serie è nè più nè meno un tentativo piuttosto evidente di sceneggiatori e produttori di dire la propria su questo o quell’argomento. Il protagonista seriale diventa così il megafono di un modo di pensare che amplifica l’ideologia dominante e tende a non rompere quegli argini culturali che imbrigliano il progresso alla dottrina tradizionale. Piuttosto li innalza. Li rafforza. E diventa antonomasia moraleggiante.
La serialità che abbiamo conosciuto nell’ultimo ventennio del XX secolo è stata in gran parte quella che ha sfruttato più palesemente lo specifico del prodotto a episodi: il ritorno del già noto. Una trama sempre diversa con un’architettura sempre uguale: situazione di equilibrio iniziale – elemento di rottura/disturbo – ricostituzione della serenità originaria, ritornando ad un punto zero che sarà la base di partenza per lo spunto narrativo dell’episodio successivo. La progressione della narrazione è perciò stabilità all’interno di regole precise che, sebbene porti ad una crescita dei protagonisti (Star Trek, Friends, Dawson’s Creek) si giova in realtà di una ciclicità che permette al format di progredire all’infinito con un meccanismo che a partire dai primi anni del 2000 ha trovato contaminazioni con altri modi di racconto fino ad arrivare alla sua antitesi che trova la sua forma più pura in Breaking Bad.
L’introduzione di una trama che lega un episodio all’altro nasce ideando un racconto di ampio respiro che mira a creare una maggiore affezione per lo spettatore al prodotto tv.
I primi esperimenti di questo tipo di racconto erano poco coraggiosi, mantendo volta dopo volta una struttura ad episodio singolo connessi soltanto in minima parte l’uno con l’altro. Anche in anni più recenti con l’affacciarsi delle delle Serie di Alta Qualità (quelle con budget a 6 zeri per ogni puntata) questo tipo di struttura narrativa ha sofferto del bisogno dello spettatore di avere un prodotto cotto e mangiato che potesse essere compatibile con l’incostanza del fruitore medio. In House M.D.² (2004-2012) troviamo un interessante momento in cui la serie, che procede generalmente come abbiamo detto per episodi autoconclusivi, abbraccia il serial, ovvero diventa la cosiddetta “serie serializzata“. Ancora acerba come intelaiatura, abbiamo però un passo nella direzione del serial puro, la telenovela: una storia continua che viene spezzata costantemente. La costruzione disorganica (e se vogliamo scolastica e prevedibile) degli episodi di Doctor House, proprio per l’ingenuità con cui è realizzata rende bene l’idea del concetto in esame: ogni puntata è impostata secondo momenti in cui il protagonista e la sua troupe lavorano al caso della settimana e altri frangenti in cui quella che potremmo chiamare macro-trama (la storia d’amore con la Cuddy, i problemi personali di House, l’amicizia con Wilson) viene portata avanti. Incrociare il formato della serie in questa maniera riporta nuova linfa nel format che guadagna l’affezione di diversi generi di fruitori: ottiene l’attenzione di chi ha soddisfazione nel godere di uno spettacolo pienamente autosufficiente, come se guardasse ogni volta un film autonomo, ma allo stesso tempo appaga anche lo spettatore che brama la visione di un progetto più ampio, un racconto più paragonabile ad un libro che ad una striscia a fumetti. A metà tra la premeditazione puramente pragmatica della produttività hollywoodiana e una precisa scelta stilistica, la fusione dei formati seriali ha avuto fortuna e ne ritroviamo l’applicazione sempre più severa nella fiction post 2000. Un’ulteriore pagina in questa direzione vede come protagonista Dexter (2006-2013) che nel proprio metodo di racconto alterna la cattura del cattivo del giorno all’evoluzione dei personaggi e della trama molto avvincente, salvo poi perdersi in un bicchier d’acqua nell’ultima fatale stagione. Se in Doctor House il cardine della narrazione erano i casi che il brillante medico doveva risolvere ad ogni episodio sfoderando il colpo di scena più o meno annunciato durante i 40 minuti precedenti, in Dexter il peso specifico dei rapporti tra i protagonisti assume maggiore importanza della caccia alla nuova preda, che di volta in volta il protagonista intraprende, fino a sovrastarla completamente. Il coronamento del running plot ai danni dell’anthology plot avviene però con la High Quality Serie che più di tutte ha rivoluzionato la fruizione dell’oggetto seriale: Lost (2004-2010). Serie evento, diventata un fenomeno culturale, ha messo in luce e, nell’arco degli anni, sviluppato le potenzialità della convergenza mediale ³; ha inoltre segnato un’ulteriore e quasi definitivo step nella serializzazione della serie, intraprendendo un lungo cammino di 121 puntate direttamente e inestricabilmente concatenate tra loro (con l’unica eccezione del tremendo episodio Exposé *¹). La formula narrativa dell’anthology plot (episodio autoconclusivo) non è però assente nella creatura di Abrams che impernia il racconto di ogni appuntamento settimanale attorno ad un protagonista, sfaccettandone la personalità all’interno del running plot di puntata e colorandone i particolari attraverso l’innovazione stilistica del flashback, più tardi del flashforward, che rappresenta il cuore autosufficiente del singolo episodio (con le dovute limitazioni, in quanto anche i flashback sottostanno ad una stretta concatenazione tra loro). Il soggetto di un gran numero di puntate inoltre tende a investigare in modo risolutivo un tema filosofico/morale andando così ad alimentare la forza intrinseca dell’autocompletamento, senza però mai fornire un epilogo decisivo. La dinamica della trama principale concatena gli episodi in una inestricabile interdipendenza tanto che la fruizione di Lost non può che essere goduta esclusivamente dall’incipit della serie. Motivo per cui i naufraghi di ABC non hanno avuto successo presso ogni genere di spettatore, ma soltanto in quella fascia di pubblico che osserva l’oggetto audiovisivo con costanza e disciplina. Per disciplina si intende la fedeltà all’appuntamento programmato, tipico del pubblico delle serie che però, in merito a Lost deve essere religiosamente attento da seguire con dedizione ogni frammento. E’ da questa necessità di conoscere tutti i tasselli della storia raccontata che Lost trae la propria forza, creando una comunita i cui adepti interessati al prodotto non potendo rimanere schiavi di una programmazione televisiva feudale fruiscono dei diversi episodi attraverso canali alternativi che da allora in avanti verranno sfruttati come mai prima. Parliamo naturalmente del fenomeno del download *² che pemette un consumo dell’audiovisivo in pressochè qualunquè parte del globo. Se quindi per milioni di spettatori sparsi per il mondo la sorgente degli episodi diventa il personal computer e non più la televisione (come già avveniva da anni per innumerevoli ragioni che variano da luogo a luogo) con Lost tutti gli altri aspetti del fandom per una osmotica proprietà transitiva invadono il web [Lost Experience, Lostpedia, i vari Webisodes, gli Hoax Movies ***², etc.] attuando un fenomeno di convergenza mediale di proporzioni colossali. E’ quindi con la serie di punta dell’emittente via cavo ABC che la connessione culturale diventa allo stesso tempo organica e sconfinata.
Se però in Lost l’attenzione era convogliata nei più diversi e disparati canali di interesse (i misteri, la filosofia, l’amore per i personaggi), Breaking Bad raccoglie quest’eredità riconfigurandola nell’apprezzamento puro dell’opera d’arte (nell’epoca della sua riproducibiltà tecnica ndr). Cioè ci si innamora di Breaking Bad, non per una malriposta fiducia in una suspence che verrà disattesa, ma perchè ci si trova ogni volta di fronte ad un piccolo capolavoro di cui godere appieno.
La nuova Golden Age del formato seriale si è quindi strutturata in una moltitudine di linguaggi che, grazie ai predecessori del capolavoro di Gilligan, si ritrovano a concorrere nella definizione di un’identità legata ad un oggetto di culto che diventa in un determinato momento storico una vera e propria sottocultura parallela e convivente con quella dominante. L’aspetto straordinario è che se in passato i movimenti culturali si creavano attorno a fenomeni che potevano vantare una molteplicità di attori che concorrevano alla sua definizione, ora, grazie ad una multimedialità onnipresente e di conseguenza ad una interconnessione tra gli individui via via sempre maggiore, il perno del nuovo microsistema culturale diventa un singolo oggetto. Nella fattispecie Breaking Bad.
Assistiamo così al fenomeno del fandom in cui, nei modi di condivisione culturale propri dell’intermediazione contemporanea, i fan di Breaking Bad individuano modi per replicare Walter White (il protagonista della serie) in un videogame, con tanto di tutorials postati su youtube che ottengono in breve tempo migliaia di views. GTA V ***¹, uscito il 17 settembre sul mercato internazionale *³ a ridosso dell’epilogo Breakinghiano (5×16 29/09/2013) offre, in un modo tipico di quello che una volta erano le tracce fantasma delle musicassette, la possibilità di trasformare Michael De Santa in Walt.
Rimanendo in tema GTA si noti come collegamenti meno diretti ma in egual misura lampanti possano comparire in un’altra clip, in cui Frank Matano, conosciuto per aver partecipato al famoso e longevo tv show Le Iene, posta il suo gameplay su youtube indossando una maglietta con una stampa che ai più potrebbe sembrare anonima, ma che un attento spettatore di Breaking Bad non fatica a riconoscere come il logo dei ristoranti di Gus Fring, Los Pollos Hermanos.